«Descolarizzare» il digitale

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Apprendere con strumentazioni digitali è un'esperienza sempre più comune. Scuola 2.0, università online e formazione a distanza sono accomunate dall'introduzione massiccia di tecnologie digitali.

Numerosi studi sono stati dedicati all'esplorazione dei cambiamenti in atto nelle dinamiche di apprendimento strutturato, in particolare con la nascita di nuovi ambienti formativi ipermediali. A prescindere dalle generazioni, giovani e meno giovani, di certo la Rete di Internet ha diffuso pratiche e modelli cognitivi reticolari: siamo passati da una modalità di apprendimento «gutemberghiana», cioè lineare, basata sul libro, a una modalità «distrattentiva», di distrazione-attenzione (messaggiare con un occhio alla lezione e un orecchio alla cuffia), multitasking, parcellizzata e nonlineare, talvolta cooperativa, che procede per tentativi ed errori. Alcuni sostengono che i nativi digitali non hanno bisogno di manuali: provano a giocare con i manufatti tecnologici e imparano così a usarli, dal cellulare al computer. Usano i servizi di social networking con tutte le sue app e dispositivi, per condividere e commentare contenuti (foto, video, audio) ovvero per comunicare emozioni. Insomma, hanno molto da insegnarci… forse.

L'argomento mi tocca da vicino.

È vero, non posso definirmi nativo digitale, visto che ricordo perfettamente l'era dei walkman, che erano davvero analogici…

Ma ricordo bene anche quando le tecnologie digitali sono arrivate nelle aule scolastiche. Frequentavo il Liceo Classico all'inizio degli anni Novanta, il professore di fisica e matematica abbandonava di malavoglia la lezione alla lavagna e ci portava in un'aula attrezzata. Di fatto era un'aula tradizionale, con un computer ogni due studenti e il docente costretto a impartire una lezione frontale. Ognuno sul suo PC, facevamo girare programmini in Turbo Pascal, un linguaggio procedurale che avrebbe dovuto aiutare noi, inetti ai numeri, a capire meglio e più velocemente la matematica.

Il web esisteva appena, ma di certo non per la massa; le finestre di Windows erano lentissime, nel concreto inutilizzabili (e in ogni caso non molto diffuse), Apple era già una costosa scelta d'élite… ma quei PC non erano semplici terminali, ed erano in rete fra loro. Nessuno ce lo disse, allora: probabilmente, nessuno al di fuori dei tecnici installatori ne sapeva qualcosa. Ma dopo poche visite nell'aula attrezzata avevamo imparato a entrare nel PC dei compagni (e del professore), prendendo il controllo della macchina: il cursore apriva programmi, digitava lettere senza che il malcapitato potesse riprenderne il controllo. Facendo tesoro dell'esperienza maturata alle scuole medie, craccavamo i giochini dell'AMIGA 500 su floppy morbidi da 5 pollici e 1/4 e ci sparavamo sessioni videoludiche altamente formative, infischiandocene del Turbo Pascal.

A loro volta, le lezioni interattive di inglese fecero presto emergere alcuni specialisti nel sabotaggio audio e video: bastava staccare il cavo del docente e inserirne uno di un'altra postazione, girare due manopole sul mixer, ed ecco che la voce della professoressa diventava quella gracchiante del rumorista di turno, che commentava il video educativo in un suo inglese maccheronico, fra le risate generali.

Stavamo imparando le nuove tecnologie digitali…

Grazie a questo apprendistato, quando arrivai all'università, a metà degli anni Novanta, insieme a Internet, diventare «l'esperto» e lo «smanettone» fu un passaggio quasi banale. Nessuno aveva idea di come funzionassero quei cosi, specialmente ora che c'erano le finestre e stava nascendo il Web. I virus erano lo spauracchio dei responsabili delle biblioteche universitarie. Specialmente nella facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Statale di Milano. Ancora una volta, quei computer erano in rete… e prima che la rete d'Ateneo adottasse qualche minimo sistema di gestione degli accessi, per anni fu possibile girare tranquillamente fra le macchine dei vari dipartimenti, nei computer dei docenti e dei funzionari, fino ai terminali SIFA da dove gli studenti stampavano i propri piani di studio e si iscrivevano agli esami. Di certo non era difficile cambiare i voti; ma era più divertente scrivere «viva le banane» sulla homepage di tutti i terminali.

Questo excursus personale vuole sottolineare che senz'altro il divario fra gli studenti dotati di telefoni furbi degli anni dieci e venti del XXI secolo e quelli che imparavano a bacchettate è enorme, ma a mio parere questi presunti nativi digitali non sono poi tanto diversi dai frequentatori di scuole di tutte le epoche. In fondo, le relazioni di potere nel contesto scolastico non sono cambiate a causa dell'avvento di radio e TV. Perché dovrebbe cambiare con Internet?

Certo, la scuola deve cambiare, essere progettata a misura di studente come uno spazio cooperativo modulare nel quale il docente impara mentre insegna e il discente spiega mentre entrambi esplorano e creano insieme un territorio condiviso. Ma non c'è bisogno di ambienti ipermediali né di tecnologie avveniristiche per immaginare spazi simili. Nel 1970, mezzo secolo fa, veniva pubblicato Descolarizzare la società di Ivan Illich, una critica radicale e definitiva dell'istituzione scolastica, caratterizzata dal rapporto autoritario docente-discente, come unica risposta legittima ai bisogni formativi. Infatti, costringere gli allievi seduti nei banchi molte ore al giorno per molti anni della loro vita, è il miglior modo per omologare le menti attraverso l'irreggimentazione dei corpi, marginalizzando come «devianti» quelli che non si adeguano al regime scolastico. O bollandoli come «iperattivi» da sedare per via farmacologica! E allora avanti con le classi proattive, gli ambienti fluidi, aperti, accessibili…

Ma in che modo? Nella stragrande maggioranza dei casi si propone di rendere computer, videoproiettori, lavagne multimediali e così via il più possibile invisibili, in modo che risultino naturali proprio come la lavagna e i banchi nell'ambiente-classe, al fine di non rivestire la tecnologia di un'aura mistica.

L'obiettivo è più che condivisibile, ma il metodo no. La parte cooperativa della cultura hacker ci insegna che «fare propria» la tecnologia significa «smontare» le macchine (a livello sia hardware che software), capirne il funzionamento, rimontarle e riassemblarle per rispondere al proprio desiderio cognitivo. Non è necessario dissimulare le macchine, al contrario: è fondamentale rimarcare in ogni momento che le macchine modificano il nostro spazio cognitivo, in quanto sono strumenti complessi che tutti noi dobbiamo imparare a gestire.

In questo senso, l'enorme sforzo da parte dei formatori nella costruzione di LO (Learning Objects) il più possibile conclusi e parcellizzati, delle specie di pillole di sapere adatte a essere digerite da classi «distrattente», potrebbe rivelarsi nocivo più che inutile.

Anche perché se tutto è raggiungibile qui e ora attraverso piattaforme e servizi in rete, se non si percepisce la differenza tra chattare con gli amici e chattare con il coach (umano o assistente artificiale che sia) della classe virtuale che spiega la lezione, diventa quasi impossibile stratificare conoscenze. Queste attività sono talmente routinarie che non costano nulla, dunque diventa inutile ricordare e organizzare le proprie conoscenze: i supporti digitali rendono le informazioni sempre disponibili, a portata di click.

Ecco il problema fondamentale: lo sforzo richiesto per imparare è praticamente nullo, perché assistere a una lezione non è diverso che stare davanti al proprio PC di casa. Non voglio fare l'elogio della versione di greco, del rompicapo di matematica o dei tomi da migliaia di pagine, ma sottolineare che (un po') di fatica nell'apprendimento è essenziale per sviluppare un sapere riflessivo, una memoria capace di accostamenti imprevedibili e dunque di creatività, insomma per sviluppare autonomia.

Inoltre, la mia piccola esperienza di «smontaggio, comprensione, riutilizzo» nelle «classi attrezzate» di quindici anni fa mostra che ogni momento può essere carico di stimoli cognitivi, insomma formativo, soprattutto quando gli ambienti sono saturi di tecnologia. Del resto, come ci ricorda Humberto Maturana, una caratteristica fondamentale degli esseri viventi è quella di essere sempre immersi in processi di cognizione e apprendimento. La maggiore esperienza degli insegnanti deve rivelarsi nella loro capacità di gestire consapevolmente emozioni e linguaggio nel processo formativo. Insegnare può quindi coincidere in parte con una ri-mediazione di contenuti; ma non attraverso la costruzione di pillole di sapere assimilabili come pappa pronta per le classi multimediali.

Il metodo è contenuto. Ovvero i contenuti non esistono separati da metodologie di apprendimento. Un esempio banale: invece di spiegare con slides come funziona il metodo scientifico, si potrebbe smontare un computer insieme agli studenti e provare a capirne il funzionamento. Allora le macchine sarebbero tutto fuorché simulacri circondati da un alone mistico.

E veniamo ai costi. Cambiare radicalmente lo spazio fisico dell'apprendimento, cioè riprogettare o ristrutturare le classi, è senz'altro molto costoso. Questo pare un nodo davvero insormontabile per una scuola che ha sempre meno fondi. Ma forse conta più la possibilità di disporre di tecnologie appropriate nell'ambiente domestico, quindi un PC con programmi adatti, conosciuti e utilizzati adeguatamente, piuttosto che a scuola. Le tecnologie digitali possono essere d'aiuto in epoche di forzato distanziamento sociale, se sostenute da metodologie valide. Non sono utili né indispensabili di per sé.

Il mio piccolo aneddoto liceale mostra che il metodo hacker è sostanzialmente indipendente dalla tecnologia utilizzata. È una questione di attitudine, non di macchine all'avanguardia. Gli hacker hanno sempre giocato con la tecnologia, valvole o transistori, andando a scovare i bug (insetti veri, scarafaggi assai fisici!) annidati fra i relais. Ri-mediare i contenuti formativi significa allora cogliere gli spunti contenuti nella realtà psicofisica delle classi reali, e promuovere un uso attivo e consapevole delle tecnologie. Perché affaticarsi a organizzare complicati workshop per spiegare a ragazzi distratti dai loro cellulari come funziona una web-radio, quando basterebbe forse un microfono attaccato a un PC per scatenare la meraviglia della voce registrata, la mia voce qui e ora? Magari sostituendo l'audio di un documentario educational con i commenti creati al volo. Spesso la connessione non è affatto necessaria, anzi, genera rumore di fondo.

A chi vuole insegnare tocca il compito, difficile ma entusiasmante, di inventare nuove modalità di ri-mediazione, senza predigerire i contenuti, utilizzando le straordinarie potenzialità delle tecnologie digitali. La soddisfazione di imparare ripaga ogni sforzo, il difficile è generare la curiosità che spinge all'apprendimento.

Bibliografia minima

  • Ivan Illich, Descolarizzare la società, Bruno Mondadori, Milano, 1983. Free download: http://www.altraofficina.it/IvanIllich/Libri/Descolarizzare/descolarizzare.htm
  • Humberto Maturana, Emozioni e linguaggio in educazione e politica, Elèuthera, Milano, 2006.
  • Lewis Mumford, Il mito della macchina, Il Saggiatore, Milano, 2011.
  • Norbert Wiener, Dio & Golem SpA. Cibernetica e religione, Bollati Boringhieri, 1991.